La vita in carcere è dura. Non serve aggiungere altro. Eppure ci sono laboratori come quello che abbiamo cercato e pubblicato capaci di non far aggrovigliare, più di quanto non sia già, la matassa. Progetti capaci di dipanare i fili fino a trovare il bandolo. Un bandolo di speranza per una vita migliore anche per chi vive dietro le sbarre.

Il laboratorio sartoriale non a caso si chiama Gomito a Gomito e rappresenta oggi l’attività principale della Cooperativa “Siamo Qua”. I destinatari del progetto sono le donne: le detenute nella sezione femminile della Casa Circondariale Dozza di Bologna. Come ci spiega il fondatore del Progetto Gomito a Gomito Martino Colombo:

Il progetto parte nel dicembre 2010. Nasce oltre un anno prima dalla collaborazione tra diverse entità: Direzione dell’Istituto di pena, Comune di Bologna, Ufficio della Garante dei diritti delle persone detenute e dalla nostra Cooperativa. Ci sono stati diversi incontri in cui si sono definiti a grandi linee le coordinate del progetto. È stata poi stilata una convenzione tra la Direzione del carcere e la Cooperativa e quindi siamo partiti. Oggi il laboratorio è una realtà produttiva (per ora l’unica all’interno della sezione femminile) abbastanza consolidata; di dimensione minuscole (occupa solo 4 detenute) ma con una ormai sperimentata tenuta nel tempo

Gomito a GomitoD. Il progetto è una sfida, una scommessa…una forma di terapia. Quali sono stati i risultati, in termini psico -fisico ottenuti nelle detenute?

R. Il progetto è una sfida e una scommessa per tutti: per i membri della Cooperativa e per le detenute che ci lavorano. Per noi: restare sul mercato in un comparto commerciale non facilissimo e in un momento economico non favorevole, con la tensione continua a fare riferimento a un ideale (ovvero al maggior bene delle persone) e non al solo profitto.

Per le lavoratrici: inserirsi in un percorso di reintegrazione attraverso il lavoro, sottostando a tutte le implicazioni che questo comporta (attenersi alla disciplina di un orario; di un “superiore” che dispone quello che devi fare; imparare magari da zero un mestiere anche sbagliando molto; lavorare “gomito a gomito” con altre persone, interne ed esterne alla struttura, ecc. ecc.).

In questi quasi sei anni ci è andata male solo con una persona, alla quale, dopo un periodo di tirocinio formativo, non è stato fatto un contratto di lavoro (come si è verificato per tutti gli altri casi). La motivazione, comunicata alla stessa persona, è stata quella di non aver colto lo spirito profondo di questa iniziativa, ma di aver operato esclusivamente alla ricerca di un proprio tornaconto e dell’interesse personale. E notare che dal punto di vista professionale era anche bravina.

D. E’ più la quantità dei lavori che riuscite a vendere o quella invenduta?

R. Se avessimo più prodotti invenduti di quanti riusciamo a venderne il progetto sarebbe già fallito. E’ necessario per noi vendere e non poco, per garantire lo stipendio alle detenute. Fortunatamente, dall’avvio del progetto ad ora, le lavoratrici hanno sempre avuto alla fine del mese il loro compenso. Cerchiamo di dare ai nostri prodotti un certo livello di qualità e di contenere i prezzi di vendita: è il nostro “cavallo di battaglia” che ci ha finora consentito di vivere indirizzandoci a una fetta di mercato abbastanza popolare ma anche esteso. Non ci manca la soddisfazione di riscuotere anche un certo successo e di venire cercati per reperire le nostre creazioni, anche se, ne siamo ben coscienti, quello che ci premia è l’essere una cooperativa sociale e l’operare con persone svantaggiate

D. Qual è la soddisfazione nel vederli acquistati da parte di chi li ha realizzati?

R. La soddisfazione è grande e non solo per loro. Riceviamo moltissimi complimenti, siamo pregate di riferire loro i messaggi che spesso le acquirenti ci chiedono di riportare. Il complimento più frequente è che il lavoro è eseguito bene; a seguire apprezzamenti sulla creatività e il “made in Italy”. Ci piace riferire che spesso le lavoratrici ricevono direttamente i complimenti in quanto- compatibilmente con il loro stato detentivo – ottengono permessi premio per uscire dal carcere e aiutare ai mercati e alle fiere. Allora capita di assistere anche a conversazioni singolari, curiose e divertenti.

D. Qual è la sensibilità della gente rispetto a questo progetto di inclusione sociale?

R. Alta. Molto alta. Noi non abbiamo punti vendita fissi e stabiliti (se non uno a scadenza quindicinale escluso il periodo estivo); tramite FB indichiamo il calendario delle nostre vendite e nonostante ciò abbiamo una clientela affezionata e siamo cercati. Il nostro territorio da una risposta davvero concreta e straordinaria. Noi usiamo solo stoffa di recupero, donata da aziende o da privati: fondi di magazzino, fine pezzature, campionari; non di rado succede che ai mercatini arrivino clienti e signore varie con le borse di stoffe da donarci. Nella realtà nella quale operiamo siamo conosciuti e apprezzati.

Da una parte nella nostra clientela c’è curiosità e interesse; dall’altra abbiamo assistito anche a scene poco felici di discussioni davanti ai nostri banchetti, quando persone di altro pensiero manifestavano opinioni diverse sul trattamento da riservare ai detenuti in genere.

P1100274D. Qual è il momento più difficile nel rapporto con le detenute?

R. Il mondo del carcere è un mondo duro, angosciante, fatto di dolore e disperazione. Dopo anni di frequentazione non parlerei di rapporti difficili, parlerei di giornate no, nelle quali il pessimismo e l’angoscia prendono il sopravvento sulla voglia di farcela. Con le donne poi c’è la quotidianità dell’assenza dei figli, del loro affido o della loro adozione. Ci sono i vecchi genitori. Questa è la vita del carcere. Rapporto complicato per sua natura. Noi cerchiamo di rispettare le persone e comprendere il momento; e siamo disponibili ad ascoltare con obbiettività e serietà. Il lavoro è importante, sono loro le prime a tenerci, ma la persona in certi contesti e drammi viene prima di tutto. Appena stanno meglio recuperano anche la produttività.

D. Quanta strada c’è ancora da fare nelle carceri per la reintegrazione sociale?

R. In proposito abbiamo una bella Costituzione e dei documenti Istituzionali che usano parole giuste e belle. Purtroppo la realtà la conosciamo tutti. Di strada ce n’è ancora tanta. Però ci proviamo. Noi pensiamo che il lavoro, regolare, serio, che rispecchi la migliore situazione all’esterno delle mura, sia una delle strade maestre. Piccole realtà che operano all’interno ci sono, vengono promossi corsi per insegnare mestieri: cucina, sartoria, muratura, meccanica, florovivaismo. Piano piano le cose cambiano anche nei luoghi più difficili e impensabili.

D. Ci sono nuovi progetti ai quali state lavorando?

R. Abbiamo sempre l’attenzione vigile su nuove aperture di prospettiva. Ci guardiamo attorno e cerchiamo di coinvolgere Istituzioni e attori diversi. In passato abbiamo attivato collaborazioni con AGEOP (Associazione Genitori Oncologia Pediatrica), con la REGIONE, con TPER (Azienda di Trasporti pubblici della Regione), con l’Università (borse per convegnistica). L’ideale per noi sarebbe poterci garantire una base di commesse fisse, che consentano una serena continuità del lavoro. Su questa base poi si possono inserire lo studio e la sperimentazione di nuove produzioni, il perfezionamento della formazione delle lavoratrici per renderle maggiormente adeguate al mondo del lavoro esterno ed eventualmente, nella migliore delle ipotesi, un ampliamento del numero degli addetti. Intanto abbiamo 4 nuove tirocinanti e speriamo di poterle assumere piano piano tutte.

D. Cercate l’aiuto di nuovi volontari?

R. Cerchiamo disperatamente volontari: creativi, modellisti, sarte, venditrici, informatici. Cerchiamo anche sempre delle stoffe. Il progetto è importante, concreto, operativo e merita davvero qualche ora settimanale del nostro tempo. Esserci o non esserci fa una grande differenza.

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